Filastrocca delle mani

di Giovanni Paolucci e Maja Celija, 2008
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Di mano in mano, gli esseri umani raccontano, a gesti, storie di cui si sa molto o poco o nulla. Vicende infraordinarie, a contatto con il fare e con l’immaginare. Filastrocca delle mani è un libro fatto di gente. [...] L’affresco umano in copertina, è la coda di un treno di persone di tutti i tipi, tenute insieme dalle mani. [...] Si vedono bambini, uomini e donne anziane, persone di mezza età, fidanzati, professionisti, genitori, ragazzine, bulli, esibizionisti, e così via. Non è difficile riconoscerli: lettore e figure, infatti, fanno parte della stessa società. [...] Ora il racconto è individuale, ora è collettivo. Tutti rappresentano frammenti di storie, che, se ascoltate, possono alterare la percezione dello spazio e del tempo, sia narrativo sia di lettura. Su ciascuno si concentrano informazioni dettagliate, che si individuano al primo sguardo oppure dopo un certo tempo, a seconda delle dimensioni e della collocazione dei particolari. [...] Giovanni Paolucci e Maja Celija, prestano attenzione alle ragioni pratiche che muovono le mani, ma sono coscienti che, furtivamente, esse compiono gesti di tutt’altra natura. Dove il confine tra finalità e intenzionalità si offusca, c’è spazio per immaginare che tutti i giorni, sull’autobus o in casa propria accadano fenomeni le cui spiegazioni sono lontane o lontanissime dalla superficie. [...] Filastrocca delle mani è un susseguirsi di messaggi non verbali, che le mani trasmettono [...] La comprensione di questa lingua non è scontata. Spesso, nella quotidianità, gesti ritenuti ovvi si accompagnano a gesti enigmatici, che restano un mistero. Al pari delle immagini e delle parole, anche i gesti possiedono un alfabeto, una grammatica. Bruno Munari, introducendo il suo Supplemento al dizionario italiano (1958), parlava di «un numero incalcolabile di cose, di azioni, di sentimenti» che i gesti riescono a esprimere. Convinto che essi «possono rendere certi stati d’animo e certe sfumature psicologiche con maggior precisione e intensità di qualsiasi discorso parlato», tentò di raccoglierne il maggior numero possibile e li fotografò. Filastrocca delle mani ricorda al lettore l’esistenza di questa lingua e, sull’esempio di Munari, invita il lettore a costruire un proprio supplemento al dizionario.

Da Microstorie, di Giulia Mirandola, in Catalogone 2007.

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Mai contare sui topi

di Silvana D'Angelo e Luigi Raffaelli, 2009
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Contare’, in certi dialetti, vuol dire ‘raccontare’. Mai contare sui topi si legge così: un adulto racconta e un bambino conta. In tutti i sensi. Mai contare sui topi è un libro per bambini della scuola materna che hanno appena imparato a contare o che stanno iniziando a farlo. Ma è anche adatto a chi è in prima o in seconda elementare e, invece che a contare, sta imparando a leggere. La lettura ad alta voce, da parte di un adulto, consente al lettore non alfabetizzato di concentrarsi pienamente sulla storia e può essere un’esperienza collettiva, non solo individuale.
Leggiamo una volta il testo da capo a fondo. Inizio e fine mostrano qualcosa di particolare. «C’erano una volta dieci topini.», si legge sulla prima pagina. «E questa è la storia.», si legge nell’ultima. Entrambe le frasi sono scritte con caratteri più grandi rispetto al resto del testo e in grassetto. In questo modo, è come se aprissero e chiudessero il sipario di un teatrino. In mezzo, c’è lo spettacolo. La prima regola da seguire nel leggere questo libro è dichiarata in copertina: Mai contare sui topi. Una frase ambivalente. Può essere interpretata come un avvertimento: “Dei topi, caro lettore, non ti fidare mai”. Oppure può essere considerata un divieto: “proibito contare”. In entrambi i casi l’avverbio “mai” è imperativo, perciò è scritto in rosso, sia in copertina sia sul frontespizio. [...] In più, l’avere stipulato a parole una regola ferrea, incita il lettore a sovvertirla. A contare e a leggere, in questo libro, si comincia con un atto di ribellione, anziché di obbedienza.
In Mai contare sui topi, si conta alla rovescia: si parte da dieci e si arriva a uno. Per fare cosa? Per fare una storia.



Da C’erano dieci topini e questa è la storia, di Giulia Mirandola, in Catalogone 2008.

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Il viaggio di Adele e altre storie del bosco


di Perrine Ledan e Lotte Braüning, 2010
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Il viaggio di Adele e altre storie del bosco è un libro composto da quattro racconti che hanno per protagonisti gli animali. Appartengono alla famiglia dei mammiferi, degli uccelli, degli insetti, degli anfibi. Sono scoiattoli, talpe, merli, lombrichi, rospi, formiche, corvi, volpi, cervi, tassi, ricci, topi. I loro nidi crescono in alto, sugli alberi; le loro tane tra le radici, sotto terra; le loro stanze dentro i formicai. Si cibano di nocciole, insetti, germogli, conchiglie, mirtilli, lumache, ghiande, bacche. Hanno tutti una particolarità: della selvatichezza che è propria dell’ambiente in cui vivono, conservano alcuni tratti, mentre altri si mescolano ai costumi degli umani. [...] Il viaggio di Adele e altre storie del bosco è un libro sulle relazioni. Ce ne sorprendiamo, ma prima o poi accade: ascoltiamo con più attenzione i consigli di un amico, piuttosto che quelli di un parente stretto; ci affezioniamo all’improvviso a persone fino a un attimo prima sconosciute, e magari mai, fino in fondo, a chi vediamo tutti i giorni; fraternizziamo più velocemente con chi non ci assomiglia affatto, invece che con i nostri simili; troviamo, fuori dalle mura di casa, l’affetto e la collaborazione di famiglie elettive; scegliamo l’autonomia, al posto della dipendenza da babbo, mamma, fratelli, sorelle, nonni, zie. È così per Adele che, lontana dai genitori, scopre di avere un vero amico a pochi isolati dalla sua abitazione. È così per Lili Bacca di Rosa, che impara dal tasso Sam, e non dai genitori, il valore impagabile del silenzio e del niente. È così per Cornelius, riccio triste in preda a un attacco di nostalgia, che rischia di affogare nelle sue lacrime e viene tratto in salvo da una calorosa famiglia di topi.
Vivere in gruppo, prendere delle decisioni collettivamente, nel bosco, come nella vita di tutti i giorni, può essere difficile, ma è necessario ed è anche un’occasione per condividere esperienze e realizzare progetti che, altrimenti, tra sé e sé, non vedrebbero mai la luce. Proviamo a pensare al gruppo come a una società in piccolo. Pacifica. Non basta fare numero per essere un gruppo. Non basta ritrovarsi nello stesso luogo e, magari, parlare uno sopra l’altro. Il traffico dei pensieri e delle prospettive individuali, quando si è in molti, va regolato, servono adeguate disposizioni, un linguaggio comune, idee condivise, rispetto.
 
Da Ispirati dalle creature viventi, di Giulia Mirandola, in Catalogone 2010.

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